Sul dorso del drago – LOFOTEN

«miraggi di montagne galleggianti capovolte davanti e dietro di te,
mentre le balene giocano e gli uccelli stridono».
Bjørnstjerne Bjørnson

Il cielo è così scuro. Eppure dovrebbe essere estate.

Il mare è grigio, profondo, misterioso. Il vento freddo arrossa le mie mani, strette alla balaustra d’acciaio della nave. Lontano, verso l’orizzonte, come un miraggio, s’innalza il Lofoten Wall. Come nelle saghe vedo i picchi affilati emergere improvvisamente dal mare, come il dorso di un drago. Come la schiena scagliosa di Miðgarðsormr, il grande serpente che mordendosi la coda cinge il mondo e che emergerà dagli abissi il giorno della fine. La nave si avvicina e in quel paesaggio ultraterreno inizio a scorgere delle case.

Qualcuno vive qui? Certo, e lo sapevo, ma l’impossibile, indomita, potenza di questo luogo me l’avevano fatto dimenticare. E’ quasi una sorpresa vedere le piccole, aggraziate case dei pescatori, il legno dipinto di rosso e bianco, specchiarsi nelle acque gelide.

La leggenda dice che le Lofoten siano state create da Thor in persona, che scagliò un pugno di rocce nel mare tempestoso. La geologia dice che l’ossatura delle isole risale a circa tre miliardi di anni fa. Queste sono alcune delle rocce più antiche del mondo. Il paesaggio di cime aguzze strapiombanti su fiordi cristallini ha preso la sua forma attuale diecimila anni fa a seguito della modellazione operata dai ghiacciai. A queste latitudini normalmente il mare è ghiacciato la maggior parte dell’anno e non vi sono praticamente insediamenti umani ma la corrente del Golfo viene qui a morire rendendo il clima eccezionalmente mite e le acque libere.

Verso sera arrivai infine a Henningsvær. Il mio ostello era ricavato in una rorbu, una vecchia abitazioni di pescatori. Sul retro una terrazza si apriva sul mare liscio e immobile come uno specchio opaco. Mi sedetti e rimasi lì a guardare il crepuscolo senza fine, il cielo scolorire e le rive lontane sull’altro lato del fiordo farsi indistinte, vaghe, fluide come una macchia di colore. Tutto era soffuso, dolce e triste come in un sogno.

Lungo il sentiero che da Unstad va a Eggum, cumulonembi si rincorrevano in un cielo grandioso. Tra la linea di costa e i picchi dentellati delle montagne si era formato un lago. Una spiaggia di ciottoli arrotondati e erosi dai venti e dai ghiacci si stendeva fino alla riva. Come una distesa di teschi. Dall’altra parte del lago una piccola casa grigia sembrava schiacciata dalla potenza delle rocce nere strapiombanti e minacciose. Chi poteva vivere laggiù? Proseguii mentre il cielo da azzurro si faceva scuro. Sulla battigia sassosa detriti di ogni tipo si erano accumulati trascinati qui da ogni angolo del globo. Forse dalla corrente del golfo che dopo aver attraversato l’oceano risale le coste norvegesi e qui si spegne, consentendo però la vita in questi luoghi oltre il circolo polare. Giunsi al piccolo faro. Un tetto di lamiera rossa e bianche pareti. Un tuono riempì l’aria. Il cielo si era fatto nero sopra alle rovine del forte costruito dai nazisti per difendere la costa. Alcune pecore brucavano tra i massi coperti di muschio. Rimanemmo qualche istante a guardarci. Poi tornai sui miei passi mentre iniziava a cadere la pioggia. Una fredda pesante pioggia d’una estate ormai morta.

Il sole è tramontato ma la luce non finisce mai. Il tempo si ferma, l’atmosfera precipita, l’aria si fa grigia. E’ iniziato il lungo crepuscolo estivo. Né notte né giorno ma un tempo sospeso, intermedio. Tutto sfuma nel blu. Bluastri sono i contorni dei fiordi dove l’acqua è immobile come vetro, come cristallo. Grigio-azzurro il cielo, argentei i prati su cui ondeggiano i soffioni. Ardesia le rocce granitiche che s’innalzano fino al cielo sfumando nel nero. In alto verso le cime scoscese la neve ha assunto toni color platino. La neve che non scioglie mai, presagio e minaccia dell’inverno. E’ l’ora dei fantasmi. L’ora in cui la porta è aperta e tutto può accadere. Nelle mitologie nordiche è proprio al crepuscolo che gli esseri soprannaturali ritornano a camminare liberi sulla terra. Quella terra di cui un tempo erano padroni. I fantasmi che aleggiano in quel territorio di confine tra vita e morte sono liberi di vagare nell’aria blu-cobalto del grigio crepuscolo, l’incerto confine tra il giorno e la notte.

Una sera sulla strada verso Henningsvær. Mentre guidavo intravidi una forma più scura stagliarsi e muoversi tra le rocce appuntite. Fermai la macchina sul lato della strada deserta. Il silenzio era totale. Il mondo privo di ombre aveva perso rilievo. Guardai a lungo ispezionando la parete rocciosa protesa verso il cielo. In alto, lontano da dove l’avevo scorta in precedenza, riecco quella forma. Irregolare e massiccia, immobile come una pietra. Ma avevo la strana, sgradevole impressione che quel qualcosa mi stesse osservando. Come un animale che rimane immobile mentre lo si osserva e che comincia a muoversi ogni volta che distogliamo lo sguardo. Preso da un’inspiegabile timore rientrai lentamente in auto. Una falena bianca e lanuginosa si era infilata nell’abitacolo ed iniziò a sbattere il suo corpo delicato contro la luce elettrica dell’abitacolo. Ripartii e per un ultima volta guardai il pendio granitico. La forma non era più lì. Molto più tardi rientrai in ostello. Il proprietario, un giovane norvegese di Bodø dalla barba bionda e dagli occhi così azzurri da sembrare trasparenti, era ancora sveglio. Stava fumando una sigaretta in piedi sulla terrazza che guardava verso il mare. Una sagoma scura contro l’orizzonte ceruleo. Scambiammo qualche parola in inglese. Poi gli raccontai della strana forma tra le montagne. “Avrai visto un troll” mi disse ostentando un sorriso canzonatorio. Sorrisi anch’io, gli augurai la buonanotte e feci per andarmene. Con la coda dell’occhio vidi il suo sorriso sparirgli dal volto.

Å è l’ultima lettera dell’alfabeto norvegese e il nome del paese che sorge sull’ultimo lembo di terra a sud dell’arcipelago delle Lofoten. Alla fine del mondo.

Il temporale mi sorprese mentre ero a pochi chilometri dal paese. Le grandi e pesanti nuvole nere che avevano danzato tutto il giorno attorno alle cime scure delle montagne, si erano ora riunite e formavano un orizzonte oscuro e compatto, esteso fino al mare.
Il villaggio sembrava deserto. Dalle grandi rastrelliere i corpi disseccati dei merluzzi emanavano un odore acre ma non totalmente sgradevole. Alcuni pescatori stavano svuotando grosse casse di plastica piene di granchi color fuoco. Una nutrita schiera di gatti si era radunata attorno a loro sperando in qualche avanzo. Mangiai nell’unico ristorante aperto, silenzioso e semi deserto. Il menù comprendeva torta di pesce, lingue di merluzzo fritte e hamburger di balena. Dalle grandi vetrate potevo vedere gli scrosci di pioggia spazzare le acque color acciaio del fiordo e il vento incresparne la superficie, sollevando piccole onde nervose che si infrangevano sugli scogli affilati e sul faro che si stagliava bianco, rosso e lontano verso l’orizzonte.

Dopo cena andai a passeggiare mentre il temporale si allontanava, e la luce del sole che, lentissimo, calava verso il mare, tingeva di arancio il volo dei gabbiani. Costole di balena appoggiate contro i muri di assi rosse delle case, nessuno in giro per le strade. Ad una porta dipinta di blu acceso era appeso un grosso pesce mostruoso e mummificato. Le mascelle spalancate urlavano nel silenzio, rotto solo dalle grida degli uccelli marini. Ogni cosa aveva perso solidità, preso una consistenza fluida. L’aria fredda e pulita, l’acqua verde smeraldo del porticciolo riparato su cui ondeggiavano le barche dei pescatori. Un’immensa malinconia s’impadronì di me. Tutto era così puro, armonioso, tranquillo. Indistinto e soffuso come un sogno. Eppure avevo la percezione della brevità di tutto ciò. La brevità, l’inafferrabile delizia dell’estate artica, delicata come un fiore della tundra. Agosto e già tutto volgeva alla fine. Le lunghe nere notti già prendevano il sopravvento sul giorno. Presagio e metafora della vita. Raggiunsi infine il promontorio che dava sullo stretto di mare che separa A dalle ultime isole delle Lofoten. Oltre il Moskenesstraumen il profilo tagliente dell’isola di Værøy, s’innalzava cupo dalle acque.

“Mentre l’uomo parlava, cominciai a sentire un suono cupo, crescente, simile al muggito di una mandria di bufali nella prateria americana, e nello stesso tempo notai che l’aspetto dell’oceano sotto di noi, da quello che i marinai chiamano rotto stava rapidamente mutandosi in una sorta di corrente diretta verso est. Mentre l’osservavo, questa corrente acquistò una impressionante velocità, che cresceva ad ogni istante… fino a diventare travolgente: in cinque minuti l’intero mare fino a Vurrgh fu travolto da una furia incontrollabile; ma fu tra Moskoe e la costa che il fragore raggiunse la massima violenza. Qui il vasto letto delle acque si fondeva e si divideva in mille torrenti in lotta tra loro, esplodendo all’improvviso in frenetiche convulsioni – gonfiandosi, ribollendo, sibilando – roteando in innumerevoli, giganteschi vortici, turbinando e precipitando verso oriente con la velocità dell’acqua di una cascata.
Ancora pochi minuti ed ecco un altro radicale mutamento di scena. La superficie si calmò, divenne liscia, sparirono i vortici, mentre comparivano strisce di spuma dove prima non c’erano. Queste strisce s’allungarono, si fusero l’una con l’altra, fino a formare l’embrione di un ben più vasto vortice. E infatti all’improvviso, questo prese consistenza sotto forma di un cerchio di oltre un miglio di diametro. L’orlo del vortice era formato da una larga fascia di spuma scintillante, ma nemmeno una goccia di tale frangia cadeva nella bocca del terrificante imbuto, il cui interno, fino dove arrivava l’occhio, era una parete d’acqua liscia, brillante, nerissima, inclinata a quarantacinque gradi sull’orizzonte, animata da un moto rotatorio e insieme ondulatorio lungo il perimetro esterno, capace di emettere un suono pauroso, per metà urlo e per metà ruggito, più intenso di quello che sia mai salito al cielo nella sua angoscia dalla possente cascata del Niagara.”

(Una discesa nel maelström – E.A. Poe)

Quello che è uno dei mari più pericolosi del mondo ora giaceva tranquillo e grigio. Come una belva addormentata. Un tizio guardava attraverso un binocolo i gabbiani tridattili che volteggiavano nell’aria della sera. Solitario scrutava oltre i confini del mondo.

www.mspagnolophotography.it

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