“Si j’avais à montrer la mer à un ami pour la première fois, c’est Etretat que je choisirais”
Alphonse Karr
Il cielo pallido e muto di gennaio si tinse di sfumature azzurrine che, verso l’orizzonte, tendevano al blu livido delle ferite mai rimarginate. Inaspettatamente proprio mentre un pescatore si allontanava dalla riva sassosa a forza di remi, una striscia sottilissima color arancio comparve al limitare tra il mare e il cielo. Il sole piombava nelle acque gelate dell’oceano. La luce scomparve all’improvviso e s’alzò un vento freddo, così ghiacciato da aver perso il forte odore salino e d’alghe che spandeva fino ad un attimo prima. Le onde rullavano sui ciottoli bianchi, azzurri e grigi, come cantando. La marea era al minimo quando infine la notte calò sugli archi e sulle guglie.
L’associazione tra i concetti di armonia, bellezza, perfezione ed elementi geologici fatti di pietra, di dura roccia, erosa, levigata dallo scorrere del tempo, quest’associazione apparentemente impossibile tra contrari, diviene evidente a Etretat.
Le falesie di questo tratto di costa affacciato sulla Manica, sono composte di calcare, o per essere più da gesso inframezzato da strati di selce.
I gessi e i calcari hanno strane proprietà ottiche. La loro bianchezza riflette la luce in maniera particolare. Nei giorni grigi e bui dell’inverno si ha quasi l’impressione che la roccia emani una lucentezza propria. Una sorta di fluorescenza spettrale, come se liberasse luce e calore accumulatesi al suo interno negli assolati pomeriggi estivi.
Questa luminescenza unita alle proprietà riflettenti delle acque oceaniche e alla pallida luce diffusa dall’umida atmosfera marina, creano un paesaggio strano, ovattato, carico di sfumature, che vanno dal celeste al blu notte nelle giornate coperte; mentre al tramonto di un giorno sereno la luce infuocata del sole che tramonta dietro la guglia, si riflette sul bianco delle falesie, rimbalza sulle acque agitate del mare ed esplode in mille toni arancioni. Sui profili eleganti degli archi rocciosi scivolano allora rivoli di luce, che si accendono, colano, lampeggiano, senza sosta.
Durante l’inverno del 1868-69 uno strano tipo con la barba incolta passeggia inquieto sulla battigia, sferzato dalle raffiche taglienti del vento salato. Ha l’aspetto di un mendicante e due grandi occhi inquieti e spaventati. E’ un uomo in fuga si vocifera tra i pescatori di sardine che siedono sul bordo delle barche allineate lungo la spiaggia in attesa del montare della marea.
In effetti Claude Monet, all’epoca ormai quasi trentenne, era fuggito in quel piccolo porticciolo della costa normanna per sfuggire ai creditori che a Parigi lo perseguitavano. E’ un’uomo disperato, affannato, distrutto. Da poco è nato suo figlio Jean e Monet è pieno di debiti. Ogni suo tentativo artistico è stato un fallimento e recentemente, a seguito di un violento litigio col padre, ha perduto la piccola rendita che questi gli forniva e che costituiva in pratica la sua unica fonte di sostentamento. Pochi mesi prima aveva tentato il suicidio. Ora nell’inverno piovoso e umido della Normandia passa ore ed ore ad osservare i cambiamenti di luce, il riverbero dell’ultimo sole del giorno sulle scogliere, il movimento ossessivo delle onde, il nero cupo dei temporali in arrivo all’orizzonte.
“Je passe mon temps en plein air sur le galet quand il fait bien gros temps ou bien que les bateaux s’en vont à la pêche, ou bien je vais dans la campagne qui est si belle ici, que je trouve peut-être plus agréable l’hiver que l’été, et naturellement je travaille pendant tout ce temps, et je crois que cette année je vais faire des choses sérieuses.”
“Passo il mio tempo all’aria aperta, sui ciottoli della riva, sia con la burrasca che quando le barche escono per la pesca, o allora vado in campagna che è così bella qui e che trovo forse più piacevole d’inverno che d’estate, e naturalmente lavoro tutto il tempo, e credo che quest’anno sarà produttivo.”
(lettera di Monet a Bazille da Etretat nel dicembre 1868)
Quella luce mutevole, cangiante, sfuggente o abbacinante lo affascina, lo ipnotizza. La maestosa guglia di roccia, la porte d’Aval che Maupassant paragonerà ad un elefante mentre s’abbevera, gli ultimi raggi di sole che riverberano contro la Manneporte, lo incantano. Il mutare del tempo che trasfigura i colori, l’odore salmastro dell’oceano, le barche dei pescatori che danzano leggere sulle onde sono immagini, sensazioni, emozioni che lo segneranno per sempre.
Pochi anni dopo nel 1872 Claude dipinge Impressione. Levar del sole. Il quadro esposto a Parigi due anni dopo, donerà il nome a quella che è forse la corrente pittorica più famosa di tutti i tempi: l’Impressionismo
Lentamente e tra alti e bassi la carriera di Monet inizia a decollare. Ma quella luce nordica, quella luminescenza malinconica e teatrale che aveva trovato sulla costa normanna non lo abbandoneranno più. Quell’algida bellezza lo ha stregato per sempre.
Nel decennio 1880-90 Monet ritorna appena può a dipingere le falesie, la guglia, gli archi rocciosi. Nonostante la fama crescente la sua vita ha nuovamente subito un colpo terribile. Sua moglie Camille è morta di cancro nel 1879. Ancora una volta Claude si ritrova disperato sotto il cielo normanno. Ancora una volta alla ricerca di una ragione di esistere. Ancora una volta alla ricerca della luce.
Maupassant anch’egli alla ricerca d’ispirazione nell’armonia, nell’algida perfezione di quei luoghi lo incontra spesso:
“L’an dernier, en ce même pays, j’ai souvent suivi Claude Monet à la recherche d’impressions. Ce n’était plus un peintre, en vérité, mais un chasseur. Il allait, suivi d’enfants qui portaient ses toiles, cinq ou six toiles représentant le même sujet à des heures diverses et avec des effets différents.
Il les prenait et les quittait tour à tour, suivant les changements du ciel. Et le peintre, en face du sujet, attendait, guettait le soleil et les ombres, cueillait en quelques coups de pinceau le rayon qui tombe ou le nuage qui passe, et, dédaigneux du faux et du convenu, les posait sur la toile avec rapidité. Je l’ai vu saisir ainsi une tombée étincelante de lumière sur la falaise blanche et la fixer à une coulée de tons jaunes qui rendaient étrangement le surprenant et fugitif effet de cet insaisissable et aveuglant éblouissement. Une autre fois, il prit à pleines mains une averse abattue sur la mer, et la jeta sur sa toile. Et c’était bien de la pluie qu’il avait peinte ainsi, rien que de la pluie voilant les vagues, les roches et le ciel à peine distincts sous ce déluge.”
“L’anno scorso da queste parti ho spesso seguito Claude Monet alla ricerca “d’impressioni”. Non era più tanto un pittore, in verità, quanto un cacciatore. Passeggiava, seguito da bambini che portavano le sue tele, cinque o sei tele tutte sullo stesso soggetto a ore diverse e con effetti diversi.
Le prendeva e le lasciava di volta in volta, secondo i mutamenti del cielo. E il pittore, in faccia al soggetto, attendeva, rimirando il sole e le ombre, cogliendo con qualche colpo di pennello, il raggio che cade o la nuvola che passa, e, disdegnando il falso e il banale, li posava sulla tela con rapidità. L’ho visto scegliere un raggio di luce scintillante che pioveva sulla bianca falesia e fissarlo con una lieve colata di gialli che rendevano in maniera straordinaria il soprendente e effimero effetto di questo inafferrabile accecante barbaglio. Un’altra volta, ha afferrato un temporale che s’abbatteva sul mare e l’ha gettato sulla tela. Ed era esattamente della pioggia che aveva dipinto, nient’altro che della pioggia che velava le onde, le rocce e il cielo appena percebili sotto il diluvio.”
E’ bellissima la descrizione di quell’uomo inquieto che letteralmente afferra la luce, le nuvole che corrono rapide, gli spruzzi di schiuma delle onde e la pioggia battente e le appoggia delicatamente sulla tela.
In dieci anni produrrà decine di opere a Etretat: mattino a Etretat, Scogliera a Etretat, La scogliera di Etretat riflessa sull’acqua, La spiaggia, Barche di pescatori a Etretat, la Manneporte, Mare Grosso a Etretat, Le scogliere d’Etretat…
Le falesie, simili a cattedrali gotiche diventano uno dei suoi soggetti preferiti, quasi una sorta d’ossessione. Il mare, le onde e quel cielo alto e imprevedibile, catturano i suoi pensieri, sciolgono la sua malinconia. Esce con qualunque tempo, con la pioggia, quando le onde rombano sulla spiaggia sassosa e sferzano la falesia o con il sole al tramonto, quando la marea ritira le acque lontano verso l’orizzonte e si può passare a piedi sotto i pallidi archi.
Ma la sua stagione preferita resta l’inverno. L’inverno delle burrasche improvvise e violente, delle gelate mattutine, dei giorni di nebbia quando tutto si fa confuso, denso e lattiginoso e non si riesce più a distinguere il mare dal cielo.
Quell’inverno che Maupassant, un altra vittima del fascino carico di tristezza, di quella algida incantevole perfezione, descrive così.
“J’aime la mer en décembre, quand les étrangers sont partis ; mais je l’aime sobrement, bien entendu. […]
Le village, si plein de Parisiennes naguère, si bruyant et si gai, n’a plus que ses pêcheurs qui passent par groupes, marchant lourdement avec leurs grandes bottes marines, le cou enveloppé de laine, portant d’une main un litre d’eau-de-vie et, de l’autre, la lanterne du bateau. Les nuages viennent du Nord et courent affolés dans un ciel sombre; le vent souffle. Les vastes filets bruns sont étendus sur le sable, couvert de débris rejetés par la vague. Et la plage semble lamentable, car les fines bottines des femmes n’y laissent plus les trous profonds de leurs hauts talons. La mer, grise et timide, avec sa frange d’écume, monte et descend sur cette grève déserte, illimitée et sinistre.”
“Amo il mare in dicembre, quando i turisti sono partiti; ma l’amo sobriamente intendiamoci.[…]
Il villaggio, colmo di parigini fino a ieri, così vivace e allegro, ora non ha che i suoi pescatori, che passano a gruppi, camminando pesantemente con i loro grossi stivali da marinaio, il collo avvolto da sciarpe di lana, che portano con una mano una bottiglia d’acquavite e con l’altra le lanterne della barca. Le nuvole piombano dal Nord e corrono sconvolte nel cielo scuro; il vento soffia. Le grandi reti brune sono stese sulla sabbia, coperte di relitti trasportati dalle onde. E la spiaggia sembra triste, perchè gli eleganti stivaletti delle signore non lasciano più i buchi profondi dei loro alti tacchi. Il mare, grigio e timido, frangiato di schiuma, monta e discende su questa spiaggia desolata, sinistra e senza fine.”
Negli inverni di Etretat che sanno essere cupi e senza fine ma anche luminosi e scintillanti come cristalli, Monet lascia scivolare via le sue inquietudini. La sua tristezza si immerge nelle onde, la sua mente si apre al calore della luce che accende di mille riverberi rossi le scogliere.
Mentre l’enorme sfera del sole precipita fiammeggiante nelle acque verde smeraldo me ne stavo su alcune piccole rocce lambite dalla marea che lentamente defluiva verso le vastità del mare aperto e pensavo a Monet. Osservavo le mille sfumature di luce, le tinte calde riflesse dal moto ondoso, guardavo gli archi imponenti di roccia e avevo l’impressione che si stessero sciogliendo, che perdessero la loro dura materia rocciosa per trasformarsi in pura luce, in toni di colore, in rapide, eleganti e lievi pennellate.
La notte era stata fredda. Un sottile strato di brina avvolgeva ogni cosa: il legno delle barche capovolte lungo la spiaggia, i corrimani di ferro, i ciottoli rotondeggianti della spiaggia. Le stelle iniziavano a tramontare e la marea era al suo apice. Lieve la luce cominciò ad insinuarsi strisciando in un cielo senza nubi.
La porte d’Aval iniziò a tingersi di viola, un viola intenso, spettrale. Poi divenne rossa, magenta, arancio, infine esplose di giallo. Piccole delicate onde facevano la spola sulla battigia accarezzandola. I sassi rotolavano cantando una nenia antica, instancabile, ipnotizzante. Il cielo divenne azzurro e gli ultimi leggeri riflessi dorati sparirono. Tutto era tono, sfumatura, forma. Un gabbiano volteggiava altissimo sopra di me.
La bellezza era ovunque.
” Quand, sur une plage pleine de soleil, la vague rapide roule les fins galets, un bruit charmant, sec comme le déchirement d’une toile, joyeux comme un rire et cadencé, court par toute la longueur de la rive, voltige au bord de l’écume, semble danser, s’arrête une seconde, puis recommence avec chaque retour du flot. Ce petit nom d’Étretat, nerveux et sautillant, sonore et gai, ne semble-t-il pas né de ce bruit de galets roulés par les vagues? ”
“Quando su una spiaggia assolata, l’onda rapida fa rotolare i delicati ciottoli, un suono fascinoso, secco come quello d’una tela strappata, allegro come una risata e cadenzato, corre per tutta la lunghezza della battigia, volteggia sui ciuffi di schiuma, sembra danzare, s’arresta per un attimo, poi ricomincia, ad ogni riflusso. Questo piccolo nome: Etretat, nervoso e frizzante, armonioso e gaio, non sembra nato dal suono dei ciottoli rotolati dalle onde?”
(Guy de Maupassant)