Dopo le tempeste di vento la temperatura crollò. Per due notti il termometro scese ben al di sotto dello zero. Il gelo pietrificava l’aria, l’acqua nelle pozzanghere era scura e ghiacciata. Poi il cielo si fece bianco e leggero. L’aria sottile che precede la neve. La mattina della prima domenica di dicembre, il giardino era coperto da un lieve, farinoso, strato immacolato. Uscendo dalla città il paesaggio iniziò a svuotarsi. La strada correva dritta lungo campi silenziosi bordati di muretti in pietra, scintillanti nel gelo mattutino. Da un camino lontano lente spirali di fumo si sollevavano verso il cielo bianco e slavato. Lentamente mentre la strada saliva verso gli altipiani delle Highlands, l’orizzonte si spostava più lontano e le tracce lasciate dall’uomo si facevano sempre più rare. Ad ogni chilometro percorso il paesaggio si scrollava di dosso un ulteriore frammento di civiltà, un’operazione di sottrazione perpetua fino al nulla assoluto. Dopo alcuni stretti tornanti raggiungemmo l’epicentro del niente. Un grande spazio desolato, che il biancore lucido della neve fresca rendeva ancora più vuoto.
“La nebbia si sollevò, si dissolse lontano e ai nostri occhi apparve una terra squallida
e deserta come il mare: qualche uccello di brughiera svolazzava qua e là tristemente, il
grido di qualche pavoncella si perdeva in quel deserto di morte: più lontano verso oriente,
come puntini in movimento, si spostava un branco di daini.
L’erica rossa allignava quasi dovunque; stagni, paludi e luridi pantani rompevano
l’uniformità del terreno. Un bosco di abeti ristecchiti spiccava contro l’orizzonte come un
gruppo di scheletri.
Era certo questo il luogo più desolato che mai occhio umano potesse vedere…”
(R.L. Stevenson – Il ragazzo rapito)
Un’immensa desolata brughiera s’apriva davanti a noi, fino agli ultimi limiti dell’orizzonte, la Rannoch Moor. Uno degli ultimi santuari selvaggi d’europa. Lo scrittore inglese Rober MacFarlane, che l’ha attraversata a piedi in inverno, proprio come Davide il protagonista del ragazzo rapito, la descrive come:
“immensa, priva di sentieri e notoriamente ostile, in ogni periodo dell’anno. E’ una prateria ad alta quota, maculata come la pelle di una iena, incisa e irruvidita dai ghiacciai, delle cui erpicature porta ancora i segni.”
(R. Macfarlane – Luoghi Selvaggi)
Non era difficile immaginarsi nell’aria ghiacciata del mattino l’immenso ghiacciaio che un tempo copriva quelle terre. L’ultima grande calotta delle isole britanniche a sciogliersi, quando l’era glaciale iniziò ad allentare la morsa. Proprio il peso immenso dei ghiacci, che avevano affossato il terreno e l’enorme massa di acqua di scioglimento, che vi si era riversata, erano le cause che avevano dato origine a quel grande spazio, inospitale e vuoto.
Una brusca folata di vento mi fece rabbrividire e aprì un varco nell’altrimenti compatto tetto di nuvole. Un raggio di sole arancione e caldo, così estraneo in un luogo così incredibilmente glaciale, si insinuò nella fessura e precipitò sulla superficie di uno dei tanti laghi che punteggiavano la brughiera. Il riflesso di quella luce si diffuse per un attimo nell’aria come uno spettro, come il miraggio di un mondo caldo, lontano e impossibile da immaginare.
Nonostante il panorama desolato mi sentivo incredibilmente attratto da quell’immenso nulla, come per una strana forza gravitazionale. Avrei voluto inoltrarmi a piedi in quello stesso istante per quelle vuote vastità, seguendo i percorsi zigazaganti dei ruscelli o le tracce dei cervi rossi sulla neve. Ma non potevo. Così rimasi a fissare ancora per un po’ l’assente, pallido biancore della brughiera, la sua opaca, seducente lucentezza e poi rientrai in auto.
“Scabre rocce nere striate di bianco nell’aria fredda e leggera che precede le tempeste di neve. Sentieri coperti di ghiaccio serpeggiano lungo il fianco gobbo della montagna. Si perdono oltre alberi solitari nelle piane innevate, raggiungono valli nascoste dove i cervi si stringono l’uno contro l’altro per difendersi dal vento. Lungo cupi laghi glaciali crescono gli ultimi alberi. Oltre il passo si estende l’infinito nulla che conduce al polo.”
Contro il cielo che andava oscurandosi si stagliavano le due piramidi gemelle. Austere e selvagge, la nera pelle rocciosa affiorante dal candido mantello innevato. Il Buachaille Etive Beag e il minaccioso Buachaille Etive Mòr, il grande pastore di Etive.
Nella stretta valle tra le due montagne cresceva uno scheletrico, rattrappito albero solitario. Come un viandante sorpreso da uno spirito maligno e da questi trasformato in albero, se ne stava solo, piegato dai venti possenti che ululando s’insinuavano nella valle. Una strana luce cangiante tingeva il cielo e la neve. A tratti blu scura e livida a tratti con sfumature quasi violacee. Tutto era silenzio. Solo ogni tanto un auto sulla stricia nera d’asfalto. Pochi chilometri più avanti la strada si insinuò in una vallata stretta e opprimente, circondata dai minacciosi contrafforti gibbosi delle montagne. Lontano si vedevano le acque del loch Leven mandare riflessi azzurrini, sormontate dalla cupola perfetta e calva del Pap of Glencoe.
Dai fianchi ruvidi dei monti neri ruscelli torbosi scendevano a precipizio verso valle, disegnando geroglifici incomprensibili. L’atmosfera limpida come cristallo metteva in risalto i contorni rudi e spietati di ogni pietra, canalone, scivolo o crepa. Le forme compatte e cupe delle tre sorelle, ultimi contrafforti del massiccio del Bidean nam Bian, nascondevano i segreti della Coire Gabhail, più comunemente conosciuto con il nome di Hidden o Lost Valley.
Quello che dalla strada appare come una piccola spaccatura nel fianco aspro della montagna è in realtà la porta d’ingresso ad una grande valle semicircolare, protetta su ogni lato da alte pareti rocciose. Un vero e proprio santuario segreto. In questo profondo calderone creato dalla pressione delle immense calotte glaciali, i membri del clan MacDonald nascondevano i capi di bestiame rubato ai vicini e nemici Campbell. I due clan da sempre divisi da un’interminabile faida giunsero ad una sanguinosa resa dei conti durante l’inverno del 1692.
Durante la lunga guerra che aveva contrapposto Guglielmo III d’Orange a Giacomo II Stuart, i clan si schierarono su opposte fazioni. I Macdonald dalla parte del cattolico Giacomo e i Campbell da quella del protestante Guglielmo, che ebbe la meglio. Al termine della guerra nel 1691 Guglielmo offrì il suo perdono a tutti coloro che avevano combattuto contro di lui, a patto che prestassero giuramento officiale di obbedienza davanti ad un magistrato, entro il termine del 31 dicembre. Dopo aver atteso lungamente il permesso da parte di Giacomo, ora in esilio in Francia, che nonostante la sconfitta consideravano ancora come loro capo, i Macdonald si apprestarono a compiere il giuramento. Alastair Maclain, signore di Glen Coe, fu uno degli ultimi ad accettare la sconfitta. Nonostante ciò il 31 dicembre si recò a Forth William per svolgere l’amaro compito, ma per una serie di vicissitudini arrivo a prestare il giuramento con tre giorni di ritardo. Un ritardo che pagherà caro.
Il duca di Breadalbane e il duca di Argyll, entrambi Campbell, videro nel ritardo un opportunità da sfruttare per schiacciare finalmente l’odiato clan rivale. Grazie alla loro influenza riuscirono a convincere il re Guglielmo della pericolosità dei ribelli Macdonald e ad ottenere da lui l’autorizzazione a procedere. Alla fine di gennaio un contingente di centoventi soldati alla guida del capitano Robert Campbell di Glenlyon, con la scusa di essere in missione per la raccolta dei tributi si accampò presso Glencoe ricevendo la solita calorosa ospitalità degli uomini delle Highlands.
I soldati rimasero alloggiati nelle case degli abitanti, per più di dieci giorni, condividendo le loro tavole e dormendo nei loro letti fino a che la notte tra l’undici e il dodici febbraio arrivò l’ordine.
“You are hereby ordered to fall upon the rebells, the McDonalds of Glenco, and put all to the sword under seventy. you are to have a speciall care that the old Fox and his sones doe upon no account escape your hands, you are to secure all the avenues that no man escape.”
“Signore, vi si ordina con la seguente di catturare i Ribelli, i MacDonald di Glencoe, e di passare a fil di spada tutti coloro di età inferiore ai 70 anni. Avrete particolare attenzione affinché la vecchia Volpe ed i suoi Figli non riescano a fuggire e a fare in modo di tagliare ogni via di fuga.”
(dall’ordine ricevuto dal Cap. Campbell)
Alastair Macdonalnd e altri 38 uomini vennero uccisi prima dell’alba e altri 40 membri del clan, principalmente donne e bambini, morirono di stenti dopo aver cercato rifugio tra le montagne.
Alcune altre macchine si erano fermate sulla piazzola di sosta. Guardavamo tutti nella stessa direzione verso le alte muraglie spigolose delle montagne. L’aria immobile andava addensandosi e la neve fresca caduta la notte prima aumentava il silenzio. Come intimoriti di fronte all’austera, selvaggia, potenza del luogo, tutti parlavano a bassa voce, come non volessero disturbare la quiete millenaria delle pietre rotolate in fondo alla valle.
Sulla strada di ritorno venimmo sopresi da quella tempesta di neve che sembrava ci avesse girato intorno tutto la giornata. La neve cadeva fitta e quasi orizzontalmente contro il parabrezza dell’auto. Attorno il paesaggio era scomparso. Le dure cime delle montagne, le strette valli glaciali, i laghi grigi e profondi. Nulla era più.
Il vento era così forte da far oscillare l’auto che procedeva a passo d’uomo nella tormenta. Tutto era bianco, tutto era caos, tutto era nulla. Quando eravamo a ormai pochi chilometri da Glasgow, uscimmo dalla tempesta e ci fermammo a fare benzina.
Guardando indietro potevo ancora vedere l’enorme, minaccioso fronte nuvoloso, agitarsi, scuro e selvaggio, come un’antica divinità. La forza bruta della natura, la sua impietosa indifferenza, mi si erano manifestati durante tutta la giornata.
Nella vasta assenza della brughiera, nelle forre ventose, nelle ruvide rocce delle montagne.
Eppure ne avevo già nostalgia. Una malinconia enorme mi afferrò la gola e se avessi potuto avrei fatto inversione di marcia per ricacciarmi nel fitto della tormenta.
Avevo ancora voglia di quella fierezza indomabile, di rimirare quella possente e crudele bellezza, di sentire il potente, impietoso, tocco della natura selvaggia sferzarmi l’anima.
“i luoghi selvaggi ci sono necessari perchè ci ricordano di un mondo al di là dell’umano. Foreste, pianure, praterie, deserti, montagne: l’esperienza di questi paesaggi può ispirare alla gente il sentimento di una grandezza esterna all’uomo, un sentimento che oggi è andato quasi del tutto perduto.”
(Wallace Stegner – La lettera dal deserto)