Non vi era luce tra gli alberi.
Solo un cupo bagliore, una fioca e grigia luminescenza, mi ricordavano che al di fuori della foresta era ancora giorno. Il buio della notte strisciava fuori dalle cavità nascoste tra il muschio che avvolgeva le radici contorte affondate nella terra scura. Nelle radure grandi pietre chiazzate di verdi licheni, silenziose e attente, formavano cerchi, piramidi, guglie. Come se antiche poderose mani avessero eretto in quei luoghi nascosti templi in onore d’antiche divinità.
Vosegus s’aggirava un tempo tra i rami più alti delle antiche foreste, uno scudo legato alla schiena e un arco attorno alla spalla. Saltava agile tra le fronde cantando una rauca canzone per proteggere gli alberi dalla forza del vento.
Nel pantheon infinito delle divinità celtiche Vosegus era sicuramente una figura minore. Personificazione della caccia nella foresta profonda, a seguito della conquista romana della Gallia, divenne anche nume tutelare della fauna selvatica. Negli anni del medioevo passò dal rango di divinità a quello di personaggio del folklore. Il suo mito andò confondendosi con quello dell’uomo verde, figura legata alla vegetazione e al culto degli alberi e di conseguenza spesso associata con la divinità celtica Cernunnos, il dio cornuto, anch’esso protettore della fauna e della flora.
L’essere verde, il cavaliere verde è una delle tante forme assunte dall’uomo selvaggio. Protettore di alberi e boschi, portatore di energie vitali, di quel rinnovamento proprio al mondo della vegetazione che muore e rinasce ogni anno e ogni anno si rinnova. Per gli antichi greci la stessa figura era incarnata da Pan, mezzo uomo mezzo caprone figlio di Ermes e di Driope, ninfa della quercia. Il termine panico deriverebbe appunto dal nome del dio e vi sono due versioni a riguardo. La prima leggenda narra che l’urlo emesso da Pan durante la titanomachia fosse così potente e terribile da far fuggire sgomento perfino il drago Delfine, salvando così gli dei olimpici dalla sconfitta. La seconda tradizione, molto più intrigante, vuole che il panico sia quel sentimento di angoscia che assale il viandante che si trova a camminare solitario per le foreste, luoghi notoriamente governati dal dio Pan.
Una sorta di oppressione si era impadronita di me. Gli enormi tronchi svettanti, il gorgoglio misterioso dei ruscelli nascosti. Il bosco emanava una forza potente. A tratti avevo l’impressione di vedere strani essere, simili ad ombre verdi correre rapidi al limite del mio campo visivo e nascondersi negli anfratti tra le pietre o dietro gli immensi tronchi caduti.
I boschi hanno da sempre suscitato nell’uomo sentimenti contrastanti, oscillanti tra timore e meraviglia. Fin dall’antichità la civiltà aveva combattuto una guerra senza esclusione di colpi contro la foresta. Chiunque abbia passeggiato solo per un bosco, avrà avvertito il sentimento di mistero che aleggia tra le sue ombre.
I boschi sono luoghi di mezzo, mondi intermedi tra il naturale e il soprannaturale dove tutto diviene possibile.
« Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita. »
(Dante Alighieri, Inferno – Canto I)
E in una foresta che si addentra e si perde Dante all’inizio del viaggio che lo condurrà all’inferno, i greci prima e i romani poi avevano sacri alcuni boschi, all’interno dei quali era però pericoloso avventurarsi perchè abitati da divinità che non tolleravano la presenza umana.
Per i popoli nordici poi, gli alberi e i boschi racchiudevano misteri insondabili e pericolosi e al tempo stesso sacri e benigni. In molti paesi europei il culto degli alberi è sopravvissuto fino a tempi recenti, spesso mescolandosi con la religione cristiana. E’ facile incontrare nei boschi francesi le Chêne à la Vierge o de la Vierge, querce“cristianizzate” ponendo un’immagine della Vergine all’interno di una nicchia del tronco. Era questo un modo per esorcizzare gli spiriti “maligni” o comunque pagani che ancora abitavano l’albero e il bosco.
Una foresta, un bosco, una selva sono per definizione selvaggi come indicato dall’etimologia del termine; sia in latino (silva-selvaggio) che in inglese, dove i termini wild e wood, provengono dalla stessa radice germanica wald e dal termine walthus che significa foresta appunto.
Sono luoghi in genere oscuri, dove la luce del sole fa fatica ad arrivare e carichi di simboli misteriosi.
Salendo il bosco si fece via via meno denso. In prossimità della cima gli alberi erano ridotti a miseri scheletri rachitici e contorti, piegati dai venti dominanti. Raffiche furiose e gelide pesanti come magli s’altrenavano a momenti di calma immobile. Il cielo grigio sfumava in un nero cupo e profondo verso l’orizzonte.
Dalle brughiere che cominciavano a fiorire, emergevano enormi massi testimoni di antichi ghiacciai, come isole in un mare color ruggine. Alcuni pini isolati proiettavano le loro cuspidi verso il cielo.
Arrivai infine sulla linea di cresta. L’altro versante era ripido e scabro. In alcuni punti grosse chiazze di neve ingiallita, resistevano ancora all’arrivo della primavera. L’inverno conservava alcune piccole roccaforti, testimoni del fatto che la sua temporanea sconfitta non sarebbe durata. Mi sdraiai sul bordo, la faccia protesa nel vuoto. Il vento soffiava in raffiche gelide dal basso verso l’alto. Rimasi immobile a sentirne la scabra potenza schiaffeggiarmi il volto finchè gli occhi non iniziarono a lacrimare.
Su di uno sperone roccioso erano ammonticchiate grosse pietre piatte, simili a tavole di granito. Mi sdraiai sulla superficie rugosa di una di esse ad osservare il panorama. Davanti a me verso est, si stendeva la piana d’Alsazia, con al centro il Reno, l’antico nume tutelare dei popoli germanici, l’antico confine dell’impero.
Mi trovavo in pratica sulla cima dell’ultimo bastione che divideva il nord, che si stendeva in direzione della Germania, dal sud che si trovava dietro le mie spalle. Un confine a lungo conteso. Un confine linguistico tra le lingue latine e quelle germaniche. Oltre questo limite i romani erano penetrati solo con sporadiche e brevi spedizioni di rappresaglia, nei momenti di massima potenza dell’impero. Oltre questo limite si stendevano le ininterrotte piane che attraversavano il territorio tedesco e proseguivano infinite fino alle steppe dell’asia. Contro questo confine si erano scagliati gli eserciti barbari e selvaggi venuti da nord e da est per conquistare le civiltà del sud. Per queste piane, per questi monti, francesi e tedeschi si erano massacrati a vicenda. Ora quelle distese erano deserte e silenziose. Solo il vento e una bruma leggera, che si perdeva in lontananza. Mi sentivo come il tenente Drogo ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. L’ultimo guardiano di un limite, di un confine a lungo conteso e ora abbanadonato.
“E’ un tratto di frontiera morta” aggiunse Ortiz.
“Così non l’ hanno mai cambiata, è sempre rimasta come un secolo fa.”
“Come: frontiera morta?”
“Una frontiera che non dà pensiero. Davanti c’è un grande deserto.”
” Un deserto? “
“Un deserto effettivamente, pietre e terra secca, lo chiamano il deserto dei Tartari.”
Drogo domandò: “Perché dei Tartari? C’erano i Tartari?”
“Anticamente, credo. Ma più che altro una leggenda. Nessuno deve essere passato di là,neppure nelle guerre passate.”
“Così la Fortezza non è mai servita a niente?”
“A niente” disse il capitano.
(Il deserto dei Tartari – Dino Buzzati)
Il vento cessò di colpo e un silenzio carico di elettricità andò accumulandosi sopra di me. Il cielo scese ancora più basso, si fece ancora più cupo. Erano solo le due del pomeriggio di uno dei primi giorni di maggio. Ma non vi era luce, ne calore, niente che potesse rappresentare l’arrivo della bella stagione.
Fantasmi aleggiavano nell’aria immobile.
“I fantasmi in europa sono del nord. […] possessione a mezzogiorno, paura improvvisa […] e tratti vuoti di colline che improvvisamente si animano […]
[…] il senso di sventura e stranezza hanno accompagnato le rovine romane […] sono le tracce del sud nel nord.”
(L’idea di Nord – Peter Davidson)
Dal nord spettri scendevano leggeri come la brezza e freddi come il gelido vento. S’insinuavano rapidi negli oscuri recessi dei boschi, si nascondevano nelle crepe tra le rocce. Fantasmi di legionari romani che presidiano l’ultimo confine di un impero ormai al collasso. Fantasmi dei fantaccini della guerra Franco-Prussiana che, per il possesso di queste terre, si ammazzarono a migliaia. Fantasmi dei soldati morti durante quel grande macello che fu la Prima Guerra Mondiale. Pochi chilometri più a sud al cimitero militare chiamato Le Viel-Armand o Hartmanswillerkopf in tedesco, avevo visto delle fotografie delle colline che costituiscono l’ultima propaggine meridionale dei Vosgi, prese pochi giorni dopo la fine dei combattimenti. Là dove ora gli alberi stendevano il loro verde mantello sulle cime arrotondate, solo tronconi anneriti, mozziconi color nero fumo, protesi verso un cielo grigio cenere. E migliaia di morti, straziati e senza requie nella terra fangosa.
Lentamente venne la pioggia. Solo una goccia ogni tanto. Poi si alzò il vento e la pioggia aumentò. Quella strana tensione carica di presagi si era infine sciolta. Mi incamminai piegato in due dalle raffiche verso il riparo della foresta. Lontano dal limite, voltando le spalle a quella frontiera finalmente, definitivamente, inutile.