Città sull’altopiano – Tenochtitlan/Teotihuacan

Una profezia diede origine a tutto una profezia ne causò la fine.
Un giorno un gruppo di avventurieri nomadi, dopo aver vagato lunghi anni su quegli altopiani desertici, flagellati da un sole di pietra, si fermò a riposare sulle rive di un grande lago. Il silenzio assoluto sotto il cielo di smalto o forse un lieve vento secco che faceva rotolare nuvole immani.
Sotto quel cielo muto si compì quanto era stato detto. Sotto quel cielo gli occhi affilati dei Mexica videro un’aquila ritta sulla cima di un grande nopal divorare un serpente. E subito si ricordarono di quanto era stato predetto e seppero che quello era il luogo che avrebbe visto la fine del loro lungo pellegrinare.La loro terra promessa.

Gli studiosi sembrano far risalire la fondazione di Tenochtitlan all’anno 1325 d.C.

In quel luogo quel popolo di guerrieri fondò una città che ben presto divenne immensa e meravigliosa. All’apice del suo splendore si pensa che nella città abitassero circa 300.000 persone. Grandiosa troneggiava al centro del grande lago affollato di canoe, splendida capitale di uno stato immenso. Il suo tempio si innalzava per sessanta metri verso quel cielo perfetto e implacabile. Verso quel cielo in cui dimoravano gli dei che non potevano che essere benevoli, che non potevano che gradire le offerte di sangue, che non potevano che proteggere e sorridere, l’audace, nobile, altero popolo dei Mexica.

Aquí tenochcas, apredenderéis cómo empezó
la renombrada, la gran ciudad. México-Tenochtitlan.
En medio del agua, en el tular, en el cañaveral, donde vivimos,
donde nacimos nosotros los tenochcas.
Crónica Mexicana

1325-1521 meno di duecento anni. 196 per la precisione. Tanto fu il tempo che quel popolo nomade impiegò per trasformarsi in una civiltà. Tanto fu il tempo in cui costruirono un immenso impero, in cui passarono dal nomadismo alla vita stanziale delle città. In meno di duecento anni composero una società complicatissima divisa in classi sociali: dai contadini ai grandi sacerdoti, tutte invariabilmente protese verso la figura centrale del regno, il dio in terra, “colui che può parlare”, il tlatoani, l’imperatore. Come la società civile anche la religione si edificò attorno ad un pantheon infinito ed in continua espansione. Ogni qual volta che i Mexica assoggettavano un popolo confinante assorbivano anche i suoi dei. Il loro calendario religioso era zeppo di ricorrenze, i loro rituali che prevedevano un gran numero di sacrifici erano formalizzati fino all’eccesso. La loro fede nel destino assoluta.

Era un mondo strano il mondo azteco, un mondo in cui nulla capitava per caso. Ogni avvenimento celava un significato; ogni fenomeno naturale, un terremoto, un incendio, una cometa nel cielo nascondeva un presagio. I sacerdoti cercavano il modo di leggere il linguaggio della natura, di interpretarlo, di renderlo intelleggibile, di svelare i segreti in esso nascosti. Perchè in esso vedevano il manifestarsi della volontà degli dei.

In questa società nacque e crebbe Motecuhzoma Xocoyotzin. Imbevuto di queste credenze, ancor più perchè sembra che la sua vera vocazione fosse quella di diventare sommo sacerdote e non re dei re. In questa società all’apogeo otto anni prima dell’arrivo dei conquistadores i presagi cominciarono ad accumularsi. Strane luci nel cielo, incendi che non volevano spegnersi, inondazioni inspiegabili.

Poi arrivò l’anno 1519 un anno cruciale. L’anno in cui terminava una dei cicli di 52 anni del calendario mexica. L’anno in cui secondo la profezia Quetzalcoatl, il dio serpente piumato, bianco di pelle e benevolo di spirito, sarebbe tornato a camminare tra gli uomini.

I prodigi continuavano anzi andavano assumendo significati inquietanti. Più volte testimoni poterono udire un canto risuonare sulle acque altrimenti immobili che circondavano la città. Una voce lieve di donna cantava una melodia macabra una canzone funebre per i Mexica. La dea Coatlicue verrà, diceva la canzone, invierà Cihuacóatl a portare morte e distruzione ai suoi figli. E persino l’imperatore stesso, non solo il popolino, fu testimone di fatti inspiegabili e terrificanti. Esseri mostruosi a più teste che si aggiravano nei giardini del palazzo, uno strano uccello con occhi come specchi all’interno dei quali il re vide uomini barbuti portare la guerra.

Era in un certo qual modo inevitabile che accadesse qualcosa. Qualcosa che avrebbe sconvolto l’intero mondo azteco.

Quando Cortes sbarcò sulle coste messicane, il 22 aprile 1519, Montezuma vide che i presagi andavano realizzandosi. Forse credette che Quetzalcoatl era finalmente ritornato e che una nuova età dell’oro sarebbe cominciata, forse invece ebbe paura che quel dio lo avrebbe punito. O forse no. Forse si accorse fin da subito che quegli esseri strani e diversi erano solo uomini venuti a combattere e uccidere. Uomini non dei, uomini avidi che volevano il suo regno. La sua mente imbevuta dei principi religiosi aztechi vacillò. Preda dell’indecisione, assalito dai dubbi, non seppe trovare la risposta giusta.

In meno di due anni si verificò ciò che le profezie sembravano annunciare. Il potente, invincibile, immenso, impero crollò, venne spazzato via da una manciata di uomini risoluti. Chissà a cosa pensava Montezuma quel giorno, in cui, dopo aver passato mesi prigioniero di fatto degli spagnoli, si affacciò dal balcone del palazzo reale, per placare, su ordine dei suoi carcerieri, la rabbia del popolo in tumulto. Chissà se si rendeva conto che quella era davvero la fine, chissà se pensava alla gloria, che aveva ritenuto infinita del suo impero, e che adesso crollava, spazzata via come un castello di sabbia. Chissà se pensò che quella era la volontà degli dei, che si compiva così come era stata annunciata dalle profezie, mentre esalava l’ultimo respiro insieme al suo regno in rovina.

“¿Solo así he de irme?
¿Como las flores que perecieron?
¿Nada quedará en mi nombre?
¿Nada de mi fama aquí en la tierra?
¡Al menos flores, al menos cantos!”

Cantos de Huejotzingo

C’è chi dice che furono le armi da fuoco degli spagnoli a risultare determinanti nella conquista, in un tempo così breve di quell’immenso impero, c’è chi dice sia stato l’apporto determinante della marea di popoli che gli aztechi avevano sottomesso e che ora vedevano nei conquistadores il mezzo per liberarsi infine del giogo azteco. Forse la colpa fu del vaiolo portato dagli invasori che falcidiò gli indigeni dicono altri. Forse…

Ma come interpretare le profezie, come interpretare le parole del re di Texcoco che si diceva posseduto dal demono e che, nel mezzo di una notte senza luna, si recò a far visita a Moctezuma e gli preannunciò la fine del suo mondo? Leggende, voci, storie create per giustificare, per spiegare agli occhi del popolo “ignorante” il perchè di quella disfatta. Leggende…Forse…Ma ho imparato che in questo paese le leggende, le profezie, i prodigi, i miracoli sono spesso più importanti della realtà.

“La pioggia fresca del tardo pomeriggio ha formato grandi pozzanghere dentro cui si riflette l’immagine fiera dell’enorme bandiera messicana che sventola al centro dello Zocalo. E come per miracolo il caos di rumori, di odori, di sensazioni, di colori, la puzza dei gas di scarico si è infine placato. Quel miscuglio frenetico stordente, tutti quegli odori, tutte quelle voci…L’odore di aglio, di cannella, di lime, di carne alla griglia, la puzza di sudore, il profumo dei fiori viola e carnosi degli alberi sui viali, l’dore di fogna e quello delle zuppe di fagioli cucinate agli angoli, il chiasso e le urla stridule dei venditori ambulanti, i sussurri strascicati dei mendicanti zoppi, il suono assordante di venti milioni di voci, il boato schiacciante di milioni di macchine, tutta questa babele, non ha fatto che aumentare, inesorabile, insieme alla polvere, al caldo e alla cappa di inquinamento che aleggia sopra i tetti barocchi delle chiese. E tutto ciò ha addensato nubi nere che lente ricoprono la città e poi si rompono in un altrettanto chiassoso temporale. Ogni giorno tra le quattro e le sei del pomeriggio. E questa pioggia è una benedizione perchè tutto può ricominciare. Perchè l’aria per qualche ora è di nuovo respirabile. Il sole barbaglia ora libero sulle ceramiche che ricoprono le facciate degli antichi, superbi, palazzi nobiliari e i resti spogli della grande piramide sono levigati da una lieve brezza. Poi lentamente i mendicanti, i venditori ambulanti, gli artisti di strada fanno ritorno ai loro posti di lavoro. I soldati in alta uniforme si avvicinano a passo marziale alla bandiera per ammainarla. E il grande tricolore con l’aquila, il cactus e il serpente scende lento e con lui scende il sole. Il cielo è tornato limpido e le nubi sono già quasi scomparse trascinate via da venti invisibili. Tutto è già pronto per ricominciare. Il caos non attenderà il nuovo giorno. I bar vanno già riempiendiosi di chilangos ubriachi, i clacson delle auto hanno già ricominciato la loro cacofonica melodia. Il ciclo è ripartito ma per ora c’è ancora spazio per un po’ di notte scura e fredda e senza luna. Per un po’ di silenzio, per un po’ di poesia.”

In meno di due anni una civiltà complicatissima, avanzata e nel pieno della sua spinta espansionistica crollò, si dissolse.

SIC TRANSIT GLORIA MUNDI

Non so se gli aztechi avessero un corrispettivo in lingua nahuatl di questo detto latino. Non so se avessero mai immaginato che un giorno il loro mondo sarebbe scomparso. Non so se avessero mai filosofeggiato sulla transitorietà delle cose terrene.
Eppure gli esempi non gli mancavano.

Conoscevano la misteriosa e poderosa città di Teotihuacan, furono essi stessi a chiamarla così. “La città dove vengono creati gli dei.” Furono essi a scoprire i resti magnifici delle sue piramidi, i bassorilievi dei suoi templi. Già allora coperti di polvere, già allora erosi dal vento secco dell’altopiano.

“Cuando aún era de noche, cuando aún no había día,
cuando aún no había luz, se reunieron.
Se convocaron los dioses, allá en Teotihuacán.”

Códice Matritense

“Una luce abbagliante, implacabile, crudele. Un altopiano flagellato dal sole del mezzogiorno. Cactus impavidi, terra dorata che si disperde in nubi di polvere, che si deposita sulle sospensioni sfondate del pick-up. Fichi d’india schiacciati contro le pietre spaccate. La desolazione assoluta, lunare, imponente di Teotihuacan.”

In meno di due anni di quell’impero che aveva dominato l’america centrale non rimanevano che rovine e un popolo scioccato, annientato da quella fine del mondo.

Dell’impero azteco non rimase che il ricordo. No, non è giusto, non è vero. Ancora molto rimane. Rimase l’amore per il gigantismo, la passione, l’ambizione di costruire basiliche enormi, viali maestosi, piazze smisurate che s’impadronirono dei colonizzatori e che caratterizzano ancora oggi Città del Messico, immensa metropoli, di cui nemmeno dall’aereo si riesce a scorgere la fine. Rimase la moltitudine di colori, di odori, di rumori. Rimase l’amore per l’orpello, per la fioritura, per i fronzoli elaborati, per l’ornamento raffinato ed inutile. Forse proprio dalla moda azteca gli spagnoli assorbirono questo gusto barocco per le piume e i riccioli che finiranno ad ornare persino le tenute forse un po’ sporche ma di certo ricercate e un po’ chic dei rudi lanzichenecchi al servizio di Carlo V. Rimasero e rimangono ancora tutti i rituali elaborati, stravaganti e un po’ macabri legati alla religione. E’ vero che il pantheon azteco venne di fatto ufficialmente abolito e gli dei identificati come demoni ma nel Messico di oggi si contano numerosissimi i seguaci della Santa Muerte, che proprio in uno dei sobborghi di Città del Messico, a Tepito, trova uno dei suoi luoghi di culto principali. Rimane addirittura anche un po’ dell’acqua dell’immenso lago, ormai quasi completamente prosciugato, che era stata la meraviglia di Tenochtitlan. A Xochimilco, pigri battelli in legno dipinti di giallo, di rosso, di verde, solcano ancora le acque dei canali. Vi sono ancora canoe che si affiancano ai battelli più grandi stipati di famiglie riunite per il pranzo domenicale, per vendere tamales e tacos de carnitas, tortas de pollo e cerveza helada. Proprio come un tempo le canoe dei mercanti aztechi, zapotechi, maya e di tutte le altre etnie del messico si affollavano sulle acque calme del lago per scambiare le loro mercanzie.

“L’aria è densa e verde come le acque immobili dei canali. Il cielo s’è fatto grigio e quando le marimbas iniziano a suonare inizia anche a piovere. Una pioggia calda e profumata di cui nessuno si preoccupa veramente. I mariachi cantano, gli aironi rimangono immobili. Un odore sale lento, avvolgente, umido, sensuale. Si mescola alla fragranza dei cibi piccanti, al sentore leggermente muschiato della pioggia, a quello acre della vegetazione. L’odore del tropico. Tutto prende la mollezza vaga e indistinta dell’allucinazione. Il vecchio che spinge a fondo la pertica nel fango abbozza un sorriso tra le rughe, accenna una canzone sottovoce e guarda il cielo, guarda le nubi grige che vanno diradandosi. Guarda il suo riflesso opaco nell’acqua del canale. Guarda un tempo che non esiste più.”

Ancora una volta è una profezia che si avvera, quella dell’immortalità di questa città. Cambiano le epoche, le civiltà, colonizzatori vengono cacciati per poi ritornare, sovrani vengono giustiziati, guerre civili si combattono ma la città è sempre lì. Enorme e vorace, superba e un po’ tronfia ma comunque viva.

“En tanto que pemanezca el mundo,
no acabará la fama y la gloria de México-Tenochtitlan.”

Memoriales de Culhuacán.

www.mspagnolophotography.it

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