Era quasi notte.
Il cielo aveva assunto la consistenza di una macchia di petrolio sospesa sul mare.
Non c’era vento a rinfrescare il buio dei vicoli, ad attenuare il calore intrappolato nelle crepe dei muri scrostati. Non c’era luna ad illuminare la notte. Fuochi d’artificio scoppiavano sordi verso le montagne. L’odore della carne alla griglia, amanti nascosti nell’ombra. Cani randagi nella notte bollente.
Nel bar semivuoto vecchi che parlano lentamente, quasi sussurrando. E lentamente sollevano i bicchieri e lasciano che il liquore scivoli dolce fino in fondo allo stomaco.
Un bicchiere di Mezcal dopo l’altro per far passare questa notte scura. Questo liquore che strofinato sulle mani emana un odore acre d’olio d’oliva e che in bocca sa di terra, di fumo di erba bruciata. Che richiama alla mente i pascoli pietrosi delle montagne brulle che circondano la città. Campi aridi soffocati dal sole, spazzati dal vento rovente che solleva nuvole di polvere rossa che si posano sul vello delle capre rinsecchite.
Ancora un bicchiere per favore. Un bicchiere per liberare i pensieri dal torrido giogo della notte, per lasciarli vagare liberi oltre i tetti delle mille chiese barocche, oltre l’acciottolato dei vicoli. Per lasciare che sorvolino le pietre spezzate di Monte Alban e le chiome degli alberi che crescono al riparo dei muri sbiancati. Per lasciarli tornare nella penombra fresca di quella casa dove passammo il pomeriggio guardando Julio impastare grossi vasi di argilla grigia e luccicante, la lingua stretta tra i denti e le grandi mani che compivano ampi movimenti circolari e perfetti. Suo padre, Don Abramo, fumava, seduto su una panca e il fumo andava ad annidarsi nelle sue rughe profonde come valli. Bambini facevano il bagno in una tinozza, il cielo era di un blu profondo e tutto era silenzio.
Dalla strada venne l’odore del mole a distrarmi dai pensieri a ricordarmi dov’ero. A ricordarmi che la notte avanzava. In cielo erano comparse le stelle. Un po’ di vento faceva fremere le chiome delle palme.
Un bicchiere ancora por favor.
Un bicchiere di quel liquido estratto dal cuore dell’agave, dal cuore della terra, dal seno generoso di Mayahuel.
Mayahuel la dea della terra, Mayahuel la dea del maguey. Mayahuel dai quattrocento seni da cui si nutrono i suoi quattrocenti figli. I quattrocento conigli dei dell’ubriachezza.
Un bicchiere ancora e sarò ubriaco, molle come la polpa del cactus, leggero come la brezza del deserto.
Un bicchiere ancora che scivola nella mia gola, rapido come la notte senza luna. Un bicchiere, l’ultimo, per non pensare più a nulla.
Una infinita processione di montagne arrotondate. Squassate dai venti, corrose dal sole. Villaggi sommersi dalla polvere, slavine di rocce rosso fuoco. Uomini grassi a torso nudo seduti all’ombra a sudare birra. Lontano luccica l’oceano.
Tramonti infiniti sull’oceano che sembra lava, oro, rame, mercurio. L’aria che si fa densa, bagnata mentre cala la notte dei tropici. Il muggito sordo dei cavalloni accompagna i giorni che si succedono. Uguali e perfetti. Risvegli nell’aria ancora fresca del mattino. Il canto di mille uccelli diversi, il sole che sale verso lo zenith, l’odore del pesce fritto, la sabbia dorata.
Il tempo sembrava essersi fermato, tutto sarebbe potuto durare per sempre. E forse è stato così.
Forse quei giorni sono in realtà durati per l’eternità. Forse in qualche universo parallelo sta scendendo ancora una volta la sera e ancora una volta arriva la brezza dal mare e le onde immense crollano sulla sabbia della battigia e il sole precipita come una cometa nel pacifico. Forse…
Una sera liberammo piccole delicate e rugose tartarughe marine tra le onde dell’oceano. Guardammo attoniti l’ultima di loro venire investita da un’onda, ribaltarsi, agitare per qualche istante frenetico le piccole pinne e poi rimettersi dritta e prendere rapida la via dell’infinito Pacifico, verso il suo viaggio senza fine.
Inspiegabilmente venimmo travolti da un senso di malinconia pesante come l’aria carica d’umidità, da una tristezza infinita. Dalla laguna alle nostre spalle il buio avanzava accompagnato dal frastuono degli aironi che salutavano la notte. Ci sedemmo sotto la palapa a bere birra insieme ai vecchi che si dondolavano silenziosi sulle amache. Non c’era bisogno di dire nulla. La falce della luna iniziò a salire nel cielo. Nessuno parlava. Nemmeno i bambini che si rincorrevano sulla sabbia.
Tutti guardavamo verso il buio profondo e salato che sovrastava l’oceano. Com cercando una risposta, come cercando di rallentare lo scorrere del tempo.
Come cercando un conforto alla nostra malinconia nell’oscurità che si stendeva oltre l’ultimo occidente.
Voglia di una colonna sonora?