“Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta impenetrabile; l’aria calda, spessa, greve, immota. Non c’era gioia nello splendere del sole. Deserte, le lunghe distese d’acqua si perdevano nell’oscurità di adombrate distanze.”
Non so perchè ma in quei lunghi soffocanti giorni che passammo nella giungla non riuscivo a liberarmi da uno strano sentimento d’inquietudine.
Una angoscia misteriosa, appiccicosa come l’aria del mezzogiorno, mi opprimeva e allo stesso tempo mi attirava tra le sue braccia.
La selva ha un fascino tragico e spaventoso. Come lo sguardo della Medusa.
In quell’intrico di liane, in quel disordine colossale fatto di alberi giganteschi, di radici aeree, di foglie enormi. In quel caotico, esuberante, imponente ammasso di vegetazione, che nasce, cresce, muore e marcisce in continuazione, costruendo mondi labirintici, complicatissimi e crudeli avevo la sensazione di camminare al cospetto di qualcosa di grande, incomprensibile e perciò terribile. Questa sensazione di smarrimento che spesso ci opprime al cospetto degli spettacoli naturali più maestosi, era amplificata dal fatto di non trovarsi davanti a qualcosa di finito, di definibile. Laggiù nel cuore scuro della vegetazione vi era qualcosa di diverso, qualcosa di più. Difficile da spiegare a parole.
Una montagna è certamente maestosa, a volte può incutere soggezione o timore, a volte può essere perfino terrificante nella sua scatenata violenza, eppure ha in se qualcosa di compiuto, di definito, di definibile. La selva tropicale, la giungla, non è definibile. E’ ciò che rimane nel nostro mondo di più vicino all’idea che abbiamo di caos.
“Nell’aria fredda del mattino, nella penombra ancora ammantata di notte che ristagnava sotto le foglie immense, risuonavano i ruggiti rauchi e sordi delle scimmie urlatrici. Eserciti di formiche avanzavano compatti verso destinazioni perse nel cuore della foresta e a noi ignote. Lentamente l’umidità del suolo saliva verso l’alto, verso il cielo che diveniva bianco e dalle cime degli alberi si levavano esalazioni di vapore flebili come fantasmi.
Coleotteri giganteschi ruzzolavano lungo tronchi marciti nei cui incavi si contorcevano grosse larve rosa.”
Vi è nella giungla qualcosa che percepiamo come ancora informe, qualcosa che non è ancora completamente formato, qualcosa in continua evoluzione, in continuo mutamento. Ed è proprio ciò a renderla inquietante.
Questa sua mancanza di forme, di contorni definibili ci mette in una posizione di inferiorità, ci toglie in un certo senso il terreno sotto i piedi. Il nostro mondo, il paesaggio visivo a cui siamo ormai da secoli abituati è (sempre più) un mondo ordinato. Questo istinto che ci porta a fare ordine nelle cose fa parte, almeno credo, delle nostre peculiarità di specie. Ci da sicurezza sapere dove comincia e dove finisce una cosa, ci sentiamo a nostro agio di fronte a qualcosa che possiamo visualizzare, di cui possiamo descrivere la forma, la struttura.
Questo nostro bisogno è facilmente riconoscibile nel modo in cui noi uomini creiamo il paesaggio. Un esempio lampante è la pianificazione cittadina. Strade che si incrociano ad angolo retto, edifici simmetrici. Tutto è ordinato, regolare. Troviamo istintivamente che sia più semplice e rassicurante. Forse perfino più bello.
Non vi è niente di simmetrico, di ordinato, di regolare nella giungla. Ai nostri occhi tutto è sconvolto, ammassato, mescolato. Non riusciamo a trovare il bandolo della matassa, a trovare un percorso mentale che possa aiutarci a decifrare questo mondo labirintico.
Possiamo solo osservare, ammirare la complessità, la continua evoluzione del paesaggio che come in nessun altro luogo, ci dona l’impressione di essere vivo.
“…le grida degli uccelli, perché in questa terra, incompiuta e abbandonata da Dio nella sua ira, gli uccelli non cantano, gridano di dolore, e colossali alberi intricati si artigliano l’uno con l’altro come in una gigantomachia, da orizzonte a orizzonte, tra le esalazioni di una creazione che qui non si è ancora conclusa. Trasudando nebbia, spossati, si ergono in questo mondo irreale – e io, come nella strofa di una poesia in una lingua sconosciuta che non capisco, mi ritrovo a provare un profondo terrore.”
(La conquista dell’inutile – W. Herzog)
Vi è un infinità di mondi nella selva. Universi interi replicati all’infinito e che si accavallano l’uno sull’altro. Un solo albero può ospitare decine di ecosistemi diversi, sostenere miriadi di specie. Rampicanti avvolti alla sua corteccia sulla quale crescono muschi. Foreste di funghi abbarbicati nell’ombra umida delle radici. Eserciti di insetti si muovono lungo i rami, vespe spaventose hanno fatto il nido nel tronco. Uccelli e scimmie tra i rami più alti si muovono alla ricerca di frutti. E’ come guardare la vita attraverso un caleidoscopio. Ad ogni nuovo sguardo si ha l’impressione che il paesaggio si sia modificato, moltiplicato, amplificato. In un processo senza fine i sensi sono sommersi da una marea di informazioni, in continuo cambiamento.
Vi fu un tempo, ormai molto lontano, in cui anche noi uomini civilizzati avevamo familiarità con questa incredibile complessità. Un tempo in cui riuscivamo a trovare il nostro spazio all’interno del caos della foresta. Ma ora abbiamo perduto questa capacità. La nostra evoluzione si è sviluppata in antitesi con quella della foresta. Distruggendo quel paesaggio che forse fin da allora trovavamo angosciante e troppo misterioso, abbiamo ricavato lo spazio per costruire un mondo ordinato, più semplice e rassicurante.
Ma non tutti gli uomini hanno seguito lo stesso percorso. Alcuni di loro hanno imparato a comprendere la selva. Hanno trovato il modo di leggerla, in un certo qual modo hanno scoperto la chiave per comprendere il significato in essa nascosto, hanno capito come poterci vivere.
“Isabela ci guidò nella foresta. La tunica a fiori delle donne lacandone e infradito ai piedi. Un timido sorriso, occhi orientali e un fiore tra i capelli lucenti e corvini. I suoi occhi vedevano cose a noi nascoste. Semi commestibili o curativi nascosti sotto le foglie, piante con cui intrecciare foglie e altre da cui ricavare carta o vestiti. Isabela sapeva quali tronchi erano adatti per costruire le case e quali erano buoni per fare il fuoco. Sentiva rumori che noi non riuscivamo a distinguere. Il tonfo sordo di un albero di Ceiba che si abbatte lontano, il cra cra rauco dei tucani. Scorgeva una lucertola nel folto del sottobosco, un pappagallo rosso fuoco tra i rami a decine di metri d’altezza. Il suo passo sembrava lento ma non incespicava mai, nemmeno mentre noi, coi nostri scarponi dalla suola antiscivolo, ruzzolavamo giù per le scarpate fangose lungo i torrenti. Isabela guardava le ali cromate delle libellule ronzanti attorno al fiore che ha raccolto da qualche parte della giungla e che emanava un profumo acre e intenso. Isabela ascoltava il vento che faceva scricchiolare i rami più alti e sorrideva sempre. Anche a mezzogiorno quando, nell’aria immobile del sottobosco, per noi ogni passo rappresentava uno sforzo sovrumano. Ci parlava a volte in quel suo spagnolo strano, imparato quando era già grande, con un accento soffocato, aspirato e denso. Ma la maggior parte del tempo rimaneva silenziosa e guardava coi suoi occhi da bambina un po’ triste verso l’ombra che giaceva anche in pieno giorno sotto lo volta degli alberi. Ascoltava, vedeva, riconosceva. La sua mente interpretava ciò che per noi era solo e soltanto caos.”
(Selva Lacandona – Messico)
Non so se un indios si troverebbe a suo agio in una delle nostre città. Non so se riuscirebbe a trovare il suo cammino nonostante l’ordine da noi creato. Forse proverebbe la stessa sensazione di angoscia e smarrimento che proviamo noi quando penetriamo nella giungla.
I suoi sensi si sono affinati per comprendere quell’ambiente che a noi appare così intricato, i suoi occhi vedono particolari che a noi sfuggono, le sue narici sentono odori per noi misteriosi, le sue orecchie riescono a distinguere suoni nell’apparente frastuono uniforme.
Ammesso che la sua mente lavori come la nostra, l’indio riesce ad ordinare quella confusione. Trova un senso in quel tramestio.
“Alcuni dei Campas sono venuti con me fin giù al fiume e io mi sono messo a correre con tutta la determinazione degli indios, ma per quanto corressi veloce, subito dietro di me sentivo il respito degli uomini nella foresta silenziosa e lo schioccare dei loro piedi scalzi quando si staccavano dal terreno argilloso e umido.
Spesso ho osservato con attenzione i loro movimenti, è un po’ come uno slalom in cui si anticipa di qualche passo, con un’oscillazione elastica del corpo, l’ostacolo successivo – una radice che spunta, una liana che pende, un ramo spinoso – e lo si aggira mantenendo un’andatura sostenuta, senza che ciò incida nel movimento nel suo insieme. Continuo a vedere gli europei che fanno pause, avanzano con gesti bruschi, inciampano, si fermano.”
(La conquista dell’inutile – W.Herzog)
Sono rimasti in pochi a riuscire a comprendere questo complesso, incredibile mondo. La civiltà dell’ordine, delle strade ad angolo retto, delle città avanza e non perdona.
In quell’ambiente diviene spesso difficile fotografare. La nostra civiltà ci insegna ad amare l’ordine, la nostra cultura a cercare regole, schemi, geometrie. In fotografia tutto ciò è se possibile amplificato. Regole di composizione, diagonali, terzi, bilanciamento, geometria. Spesso ciò che fa il fotografo è proprio una operazione di riordino.
Impossibile ragionare in questo modo nella selva.
La sola cosa che rimane da fare e lasciare liberi i nostri sensi, lasciare che vengano sommersi da quella miriade di informazioni. Tutto prende allora la molle consistenza del sogno.
Cercare di resistere sarebbe inutile e pericoloso. Cercare di mettere ordine sarebbe follia.
Non ci resta che abbandonarci a quella forza e annegare in quella molteplicità. Allora l’inquietudine che ci aveva colti, il turbamento provato all’inizio di fronte all’amorfa potenza della giungla, si allenterà. Una profonda malinconia, soave come il profumo dei fiori della selva s’impadronirà del nostro essere, mentre, lentamente, dolcemente ci lasceremo annegare, invadere dalla potenza di questo paesaggio così antico eppure in continuo rinnovamento.
Rinunciare ad ogni resistenza, essere fluidi, aggirare l’ostacolo, abbandonarsi alla corrente e farsi trascinare dalla suprema bellezza del caos.
“Una foresta di alberi immensi e bizzarri a volte rossi come il fuoco altre bianchi come la calce cresce nell’atmosfera grigio blu, si aggroviglia nella nebbia del mattino. Profumo di foglie, odore di resina, di legno marcio, di terra bagnata, di fiori carnosi. La giungla respira piano apparentemente immobile ma in realtà già sveglia. Radici gigantesche sprofondano nella terra nera prima che arrivi il giorno. Il vento fa oscillare le liane coperte di muschi rampicanti, trasporta nell’aria pesante le risate stridule dei parrocchetti e l’urlo cavernoso del saguaro. Tutto sembra immobile eppur tutto si muove, tutto sembra silenzioso ma è una babele di suoni. Migliaia di mondi si intersecano, si scontrano, fioriscono e muoiono. Ogni istante è una nuova creazione o la fine di un mondo.”
(Tikal – Guatemala)
“Al principo estaba K’akoch solamente, creò la tierra y el agua. Luego creò el sol. Creò la luna para el sol. K’akoch creò a todos los dioses. Sumkunkyum fue el primero. Luego Akiantho y nuestro señor Hachakyum. Hachakyum creò la selva y los animales y los lacandones. Hachakyum puede negar su palabra y destruir el mundo alguno dia pero cada vez empieza de nuevo. Cada dia el sol se levanta del inframundo. Cada año el mais se levanta de la tierra. Los ancianos mueres pero su hijos viven para sostener los dioses.”
(Creazione del mondo secondo i Lacandoni)